O il bosco o la città

Continuano gli approfondimenti di Quattro Pagine. Questa volta L’Osservatore Romano riflette sul bosco, tema di cui provo a indicare luci e ombre. Come stanno le nostre città e che cosa cerchiamo davvero nella natura?

«Il problema non è se piova o nevichi, ma come ti vesti»: evidenza che forse non basterebbe a rassicurare un genitore apprensivo, ma sulla quale si fonda la pedagogia dei Waldkindergarten, gli asili nel bosco. Alle porte di Zurigo, sono spesso i figli di grandi manager del settore finanziario a crescere in una scuola senza tetto, né pavimento, né mura, sulle colline che circondano la città. Ogni giorno una famiglia provvede al pasto per tutto il gruppo, di dieci – quindici bambini, a turno, mentre le attività si sviluppano in qualsiasi stagione a contatto diretto con una natura non sempre amica. Il contrario della città? Interroga l’attrazione per una situazione educativa così estrema: il suo successo sembra stare nella contraddizione degli standard che sono vanto di una civiltà della tecnica, dell’igiene e della sicurezza. Che cosa cerca per i propri figli chi sta nella cabina di regia di un mondo iperconnesso e ultraveloce, chi abita case firmate dai migliori architetti e lavora in uffici di vetro e acciaio che dominano l’orizzonte? Il bosco è, non solo nelle fiabe, “altro”. Fascinans et tremendum: del sacro possiede i tratti distintivi identificati da Rudolf Otto, dei quali è interessante intravvedere la potenza educativa. Non ci si inoltra da soli, nel bosco: occorre essere presi per mano.

Forse è di questo mistero, e non solo di verde, che hanno urgenza le nostre città. In esse si fanno strada esperimenti anche linguisticamente improbabili: a Milano il nuovo millennio ha portato il bosco in città e un bosco verticale. Ecologismi da indagare più a fondo di ciò che dichiarano. La città non è, infatti, il luogo del bosco, ma del giardino e dei parchi, di una natura antropizzata, disegnata nell’armonia e nella misura, che dà respiro al costruito e rallegra la convivenza. Che cosa abbiamo smarrito? Forse proprio un paesaggio urbano di cui rallegrarci, quello al quale – fuori dalle mura – succede la campagna, coltivata e custodita dal lavoro umano che ha scavato canali, modellato terrazzamenti, segnato confini, dissodato terreni aspri e bonificato aree paludose. È saltata la misura, si è rotto l’equilibrio che ha plasmato la città europea: al suo centro foresta di pietra era la cattedrale, coi suoi mostri e il suo mistero. E poi una selva di vicoli, piazze, portali, fontane, corti e giardini. Oltre la campagna, a dire il vero, persino il bosco non è foresta, né selva oscura: esso esiste chiedendo dedizione e cura, lavoro e rispetto. È allora tesoro e non minaccia.

“Poiché così dice il Signore, che ha creato i cieli; egli, il Dio che ha plasmato e fatto la terra e l’ha resa stabile e l’ha creata non come orrida regione, ma l’ha plasmata perché fosse abitata:

Io sono il Signore; non ce n’è altro” (Is 45,18). La rivelazione biblica disinnesca il fascino di boschi e alture, santuari di un sacro ambiguo e bifronte. La lotta anti-idolatrica è continuo avanzamento, con Dio, di un Logos, דָּבָר‎ – Parola, che scioglie la paura e porta fuori dalle tenebre. Nell’azione creatrice, Parola di separazione – distinzione, il mondo esce dall’informe e la natura si dispone a diventare Eden, paradiso, attraverso il coltivare e custodire umani. Casa comune, affidata non a un dominio, non a un saccheggio, non all’arbitrio di cui il costruire umano si è intriso: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2,15). L’accelerazione moderna ha estremizzato sino al pervertimento un esercizio di responsabilità che per millenni, non senza contraddizioni, ha conservato un proprio interno equilibrio. Così, la città secolare oggi invoca il bosco, il paesaggio stravolto rincorre la selva oscura, orride regioni di veleni e cemento gridano il bisogno di natura. Bisogno di senso e di misura. Di incanto. Di altro.

Elfi, streghe e spiriti del bosco riappaiono in coscienze segnate da una razionalità di solo calcolo, che ha dismesso la profondità della ragione umana: essa stessa, infatti, domanda di essere coltivata e custodita. Cultura etimologicamente rinvia infatti a quel coltivare che impegna il bambino a uscire dal regno della natura, venendo, oltre la legge dell’istinto, alla parola. Cultura è quell’universo delle parole in cui orientarsi tra i nomi che gli altri hanno dato alle cose: prendervi familiarità, dire la propria parola, “nominare” è uscire dal bosco e abitare il giardino. Colpiscono, però, i versi di Nelly Sachs, espressione d’angoscia per un possibile azzeramento del Logos: “Popoli della terra, non distruggete l’universo delle parole, che uno non intenda morte, quando dice vita”. Babele, infatti, non è una città, ma la trasformazione in incubo del fare umano. “Là il Signore confuse la lingua di tutta la terra” (Gen 11,9). Lo stravolgimento del paradiso è un’immane costruzione che tutti e tutto divora, che cancella i volti e le parole. Laudato si’ è invece il canto di un equilibrio custodito, di rapporti coltivati, di un altro cui è riconosciuto il suo spazio. Gerusalemme – la nuova città che legherà terra e cielo, cultura umana e grazia (Ap 21-22) – non avrà un tempio, ma porte, case, fiumi e giardini. Essa è la meta di un cammino comune all’intera umanità, il frutto di un travaglio di cui viviamo le doglie: in essa il sacro non avrà più ambiguità, ma stupore e vertigine scaturiranno dal suo ordine ospitale.

Le fiabe – come ha scritto Silvano Petrosino – non raccontano favole. Il bosco esiste. Va avvicinato. Ci rammenta i territori inesplorati, sconosciuti, fuori dal nostro dominio, di cui è piena la vita. Il nostro stesso cuore è oscuro. Occorre essere presi per mano, addentrarsi e non scappare. Fermarsi e familiarizzare. Giustamente, allora, qualcuno riconosce nel bosco un formidabile luogo educativo. La nonna di Cappuccetto rosso, però, abita al di là del bosco. Crescere è, infatti, arrivare ad attraversarlo da soli, capendo anche che cosa rispondere al lupo. Le nostre città non possono rinnegare questa avventura, che è quella di un’intera civiltà. Invocando il bosco, cercano forse il brivido di una libertà perduta e l’armonia di una convivenza che la faccia spazio.

Sergio Massironi,

L’Osservatore Romano, 25 maggio 2021

Un pensiero su “O il bosco o la città

  1. Una volta era la Natura a fare da maestra ai bambini. Adesso molti bambini non sanno cosa sia un bosco. È un vero peccato perchè questo distacco dalla natura li rende poi uomini aridi.

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